IL TRIBUNALE

    Il giudice, nel procedimento penale n. 3942/05 RGNR, premesso:
        che  in  data  1°  aprile  2005  alle ore 18,40 Hasani Fatmir
veniva  tratto  in  arresto  per il reato p. e p. dall'art. 14, comma
5-ter  d.lgs.  n. 286/1998  come  modificato dall'art. 1, comma 5-bis
decreto-legge n. 241/2004 convertito nella legge n. 271/2004 perche',
senza  giustificato  motivo, si tratteneva nel territorio dello Stato
in  violazione  dell'ordine di lasciare il territorio nazionale entro
il  termine  di  giorni  5  impartitogli dal Questore di Milano il 24
gennaio 2005 emesso ai sensi del comma 5-bis del suddetto articolo di
legge e notificatogli il medesimo giorno;
        che  in  data  4  aprile  2005  la suddetta persona arrestata
veniva  presentata  davanti  a  questo giudice per la convalida ed il
contestuale  giudizio  direttissimo  a  norma  dall'art.  14, comma 5
d.lgs. n. 286/1998;
        che successivamente all'interrogatorio dell'arrestato il P.M.
ha  la  convalida  dell'arresto chiedendo l'applicazione della misura
cautelare in carcere;
        che  l'arresto,  ricorrendone  le condizioni di legge, veniva
convalidato;
        che  nel  successivo  giudizio l'imputato avanzava istanza di
giudizio abbreviato;
        che il giudice disponeva il richiesto giudizio abbreviato;
        che  nel  corso  del predetto giudizio la difesa sollevava la
questione  di  legittimita' costituzionale della norma incriminatrice
della  condotta  ascritta all'imputato per violazione degli artt. 3 e
27 della Carta costituzionale;

                            O s s e r v a

    1.  -  Il  testo originario dell'art. 14 comma 5-quinquies d.lgs.
n. 286/1998 non prevedeva alcuna sanzione penale per lo straniero che
non  avesse  ottemperato all'ordine emesso dal Questore in esecuzione
del decreto di espulsione del Prefetto.
    2.  -  La  fattispecie penale di cui trattasi e' stata introdotta
dalla  legge  n. 189/2002,  come reato contravvenzionale punibile con
l'arresto da sei mesi ad un anno, prevedendo per tale reato l'arresto
obbligatorio.
    3.  -  Con  la  sentenza  n. 223/2004  la Corte costituzionale ha
dichiarato   l'illegittimita'   costituzionale   dell'art. 14,  comma
5-quinquies  per contrasto con gli articoli 3 e 13 della costituzione
«nella  parte  in  cui stabilisce che per il reato previsto dal comma
5-ter del medesimo articolo e' obbligatorio l'arresto dell'autore del
fatto,  per  la manifesta irragionevolezza della previsione di misura
precautelare  non suscettibile di sfociare in alcuna misura cautelare
in base al vigente ordinamento processuale.
    4. - Interveniva, quindi, il d.l. n. 241/2004, che non modificava
per la fattispecie in esame la pena prevista dalla legge n. 189/2002,
ma  riformulava  il  testo  dell'art.14,  comma 5-quinquies limitando
l'arresto   obbligatorio   all'ipotesi   di  cui  al  comma  5-quater
(reingresso nel territorio dello Stato dello straniero espulso), gia'
prevista  come  delitto  punibile  con la reclusione da uno a quattro
anni.
    5.  -  In  sede  di  conversione  del d.l. citato il reato di cui
all'art. 14, comma 5-ter veniva previsto come delitto punibile con la
reclusione  da  uno  a  quattro  anni  (ad  eccezione dell'ipotesi di
espulsione  motivata  dall'essere  scaduto  il permesso di soggiorno,
ipotesi  per  la  quale  veniva mantenuta la pena dell'arresto da sei
mesi   ad   un   anno)   e   veniva  nuovamente  stabilito  l'arresto
obbligatorio.
    Cio' detto, va osservato che nel corso di un breve lasso di tempo
e'   intervenuto   un   notevole   inasprimento  della  pena,  previa
riqualificazione   della  ipotesi  delittuosa  da  contravvenzione  a
delitto,  della  cui  proporzionalita'  e  ragionevolezza  si  dubita
concretamente.
    Sul   punto,   infatti,   deve   essere  richiamato  il  criterio
costantemente adottato dalla Corte delle leggi, che, pur riservando -
come  evidente  -  alla  «discrezionalita'  del legislatore stabilire
quali  comportamenti debbano essere puniti, determinare quali debbano
essere  la  qualita'  e  la misura della pena ed apprezzare parita' e
disparita'  di  situazioni»,  ha  affermato  che «l'esercizio di tale
discrezionalita'  puo'  essere  censurato quando esso non rispetti il
limite  della  ragionevolezza e dia quindi luogo ad una disparita' di
trattamento  palese ed ingiustificata» (cfr. sent. 25/1994, 333/1992,
84/1997).  Ancora,  e'  stato  chiarito (cfr. sent. 409/1989) «che il
principio   di   eguaglianza,   di   cui  all'art.  3,  primo  comma,
Costituzione  esige  che  la  pena sia proporzionata al disvalore del
fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia
nel  contempo  alla  funzione di difesa sociale ed a quella di tutela
delle  posizioni  individuali».  Tale funzione non verrebbe adempiuta
qualora non venisse rispettato il limite della ragionevolezza. A cio'
si   aggiunge   (cfr.   sent.  sopra  citata)  che  il  principio  di
proporzionalita'  porta  a  negare  legittimita' alle «incriminazioni
che,   anche  se,  presumibilmente  idonee  a  raggiungere  finalita'
statuali   di  prevenzione,  producono,  attraverso  la  pena,  danni
all'individuo  (ai  suoi  diritti,  fondamentali)  ed  alla  societa'
sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da
quest'ultima  con  la  tutela  dei  beni  e  dei  valori offesi dalle
predette  incriminazioni».  Questo  principio  e'  ora recepito anche
dalla  Costituzione  europea  che all'art. 2-109 prevede che «le pene
inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato».
    Inoltre, per inciso, la Corte delle leggi ha piu' volte affermato
che  la  manifesta  mancanza  di proporzionalita' rispetto ai fatti -
reato  vanifica  il fine rieducativo della pena sancito dall'art. 27,
comma 3, della Carta costituzionale (cfr. sent. 313/1995 e 343/1993).
    E'  vero che con l'ordinanza n. 368/1995 la Corte costituzionale,
su un'eccezione concernente l'elevazione nel 1991 del minimo edittale
per  il reato di cui all'art. 629, ritenne rispettato il limite della
ragionevolezza  ritenendo  che  l'inasprimento  conseguente  non dava
luogo   «a   macroscopiche   differenze   rispetto   al   trattamento
sanzionatorio  previsto per il reato di rapina - fattispecie peraltro
non  del  tutto  assimilabile  a  quella  della  estorsione»,  ma  la
questione oggi in discussione e' del tutto diversa, per due ordini di
ragioni.
    In  primo  luogo,  l'inasprimento  e', in questo caso, certamente
macroscopico:  non solo la fattispecie criminosa e' stata trasformata
da contravvenzione a delitto, ma il massimo della pena edittale della
pena   detentiva   in   precedenza  prevista  per  lo  stesso  fatto,
corrisponde oggi al minimo edittale previsto per il delitto mentre il
massimo  della  pena edittale previsto per il delitto oggi contestato
corrisponde  a  quattro volte il massimo della pena edittale previsto
dalla contravvenzione abrogata.
    In  secondo  luogo l'aumento di pena per il delitto di estorsione
come  fa  intendere  la  Corte  con  il  riferimento  alla «difficile
individuazione    in    concreto   dell'aggravante   di   far   parte
dell'associazione  di  tipo  mafioso»,  costituiva  la risposta dello
Stato al fenomeno del c.d. «pizzo» emerso con particolare gravita' in
alcune  regioni nel corso degli anni ottanta e, quindi, molto lontano
nel  tempo  rispetto alle statuizioni sanzionatorie relative ai reati
di rapina ed estorsione.
    Cio'  detto,  un  simile  ragionamento  non puo' essere fatto per
l'inasprimento  di pena per lo straniero che non ottempera all'ordine
del Questore.
    Ed  invero, si osservi: nei soli due anni che intercorrono tra la
legge  n. 189  e  la  legge  n. 271,  il  fenomeno  dell'immigrazione
clandestina   non  ha  subito  variazioni  tali  da  giustificare  la
conversione   del   delitto   dell'inottemperanza   dello   straniero
all'ordine di allontanamento del questore e l'elevazione macroscopica
di  pena  introdotta  in  sede  di  conversione  in  legge  del  d.l.
n. 241/2002.
    Cio'  e  reso  ancor  piu'  manifesto, se possibile, dalla stessa
relazione  di  accompagnamento  del predetto d.l. n. 241/2002, atteso
che   i  relatori  fanno  riferimento  soltanto  alla  necessita'  di
adeguarsi  alla  sentenza n. 223/2004 della Corte costituzionale, con
riferimento al citato inasprimento della pena previa riqualificazione
della   fattispecie  criminosa  come  delitto,  cosi'  da  consentire
l'arresto  obbligatorio per coloro che non ottemperino all'ordine del
questore,  senza  cenno  alcuno a nuove situazioni o esigenze di tipo
sociale o attinenti all'ordine o alla sicurezza pubblica.
    E' evidente che la trasposizione di un'esigenza di tipo meramente
processuale  nel  diritto  penale  sostanziale  non puo' integrare il
criterio  della  ragionevolezza,  e  si  pone  in  contrasto  con gli
articoli 3 e 27, comma 3 della Costituzione.
    Ancora,  per  valutare se l'inasprimento di pena introdotto dalla
legge n. 271/2004, sia compatibile con l'art. 3 della Costituzione si
deve  fare  riferimento  a  norme  incriminatici poste a tutela degli
stessi interessi (individuati nell'ordine, pubblico e nella sicurezza
pubblica), con previsione di analoghe modalita' di condotta.
    A  tal  fine  deve essere preso in considerazione l'art. 650 c.p.
che  punisce  con  l'arresto  fino  a  tre mesi o con la sola ammenda
l'inottemperanza  ad  un provvedimento legalmente dato dall'autorita'
per ragioni di sicurezza pubblica o d'ordine pubblico.
    Ancora,  sempre  a  tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza
pubblica  e'  ispirata  la  fattispecie di cui all'art. 2 della legge
n. 1423/1956.  Anche  qui  vi  e'  un  ordine della medesima pubblica
autorita',  il Questore, concernente persone ritenute «pericolose per
la  sicurezza  pubblica»  e, anche qui, l'inottemperanza configura un
reato  contravvenzionale, per il quale e' previsto l'arresto da uno a
sei mesi.
    Da  quanto sopra ne discende che coerentemente il legislatore del
2002,  consapevole  delle  sanzioni  comminate  per  la violazione di
fattispecie  delittuose analoghe e similari, aveva previsto l'ipotesi
criminosa    di   cui   all'art.   14,   comma   5-ter   come   reato
contravvenzionale,   potendosi  la  maggiore  pena  prevista  per  il
contravventore,  rispetto  alle situazioni similari poco sopra viste,
trovare   effettivamente  giustificazione  nella  nuova  esigenza  di
contrastare  il  fenomeno,  complesso, dell'immigrazione clandestina,
del  tutto  sconosciuto all'epoca della redazione del codice penale e
della legge n. 1423/1956.
    Sussiste, pertanto, una rilevante e non giustificata sproporzione
tra  la  pena  ora  prevista  per la stessa ipotesi, configurata come
delitto,  e  le sanzioni penali dettate per le contravvenzioni di cui
agli artt. 650 c.p. e 2 legge n. 1423/1956.
    L'irragionevolezza  sussiste,  quindi,  sotto un duplice profilo,
ovvero sia con riferimento alla pena che il legislatore solo due anni
prima  aveva ritenuto congrua per l'ipotesi in esame, senza l'essersi
manifestate  medio  tempore  nuove  e  diverse piu' gravi esigenze di
ordine  pubblico  e  di  sicurezza pubblica, sia con riferimento alle
pene previste per analoghe fattispecie.